Ieri ho voluto vedere ‘Into the forest’. Direi di aver sperimentato, nel primo lock-down, emozioni avvicinabili a quelle emerse nelle fasi iniziali del film. In Lombardia, con le strade deserte, le code ai supermercati semi-svuotati, la batteria del telefonino (indispensabile coi pazienti) che implode senza possibilità di sostituirla e l’ultimo cellulare che in extremis riesco ad acquistare, i pochi tir sulle autostrade, forse mancherà merce, ricambi, cibo… e intanto solo le sirene delle ambulanze e i malati negli ospedali… Non era lo stare in casa, che mi piace, come non dispiaceva ai protagonisti, che già avevano scelto di vivere isolati in un bosco. Erano l’attesa e il pericolo che si faceva tangibile. Per esigenze lavorative dovevo informarmi su malattia e diffusione del virus, ma, non avrei potuto comunque non cercare di sapere. Sapere era essere partecipe. Partecipe di ciò che accadeva agli altri, alle città, alla nazione. E mi ha dato sconcerto che nel film i protagonisti non si siano chiesti e non abbiano mai chiesto cosa fosse successo né cosa stesse accadendo aldilà del bosco, che non sia balenato nessun interesse per le altre persone… Perché qui invece è scattata la spinta ad aiutare, si cercavano dispositivi di protezione e camici per gli ospedalieri, camiciotti per i malati, saturimetri, ventilatori… insomma, la solidarietà a cui assistiamo ogniqualvolta capiti una catastrofe nel nostro paese. Riflettendo a quanto dicevamo nel forum, non penso di poter ‘spegnere la radio’ e non avere più notizie, anche se concordo sul non lasciarsene sopraffare.