Rispondi a: NUOVE FRONTIERE DELLA MEDICINA

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Buteo
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Questa sera mi ha telefonato un’amica chiedendomi aiuto perché la mamma 98enne, allettata da 3 settimane, rifiuta il cibo e il medico non acconsente a posizionarle il sondino naso-gastrico per la nutrizione enterale: “sarebbe un’inutile sofferenza”… “non ne vale la pena”…
Vorrei condividere con voi le domande che mi sono sorte…
E cioè, se siano queste le considerazioni che devono guidare l’atto medico verso un paziente che, per l’età, si ritiene prossimo al fine vita. Io, medico, posso arrogarmi il diritto di emettere non una prognosi, bensì un giudizio soggettivo sulla quantità di vita che lo attende? E posso negargli il supporto terapeutico e nutrizionale che darei a un soggetto giovane, perché giudico che quella qualità di vita non valga la pena di essere vissuta?
Dove pongo, quindi, la linea di separazione tra una giusta terapia e un accanimento?
Devo riconoscere che per me è stato illuminante e dirimente l’insegnamento della Schola Ermetica: l’aiuto terapeutico va dato solo ogni qual volta sia richiesto e non può essere imposto. È legge di assoluto rispetto dell’essere umano, e in accordo con il codice etico di Ippocrate. E ho fatto mia una frase di U. Galimberti: “Non si muore perché ci si ammala. Ci si ammala perché si deve morire”…
Il corpo-mente che ha esaurito le risorse… semplicemente muore.
La persona che vuole guarire e vivere, chiede aiuto. E quando un paziente non sia in grado di esprimersi, io medico posso lasciare che per lui parlino i segnali del corpo: se è in atto un miglioramento clinico, l’organismo ha ancora risorse e, qualunque siano l’età e le condizioni, non sono autorizzato a decretarne la fine…
La mamma della mia amica è ancora parzialmente consapevole. Ho ritenuto di suggerirle di ascoltarla, di coglierne la volontà e di rispettarla…

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