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Originariamente postato da filosobek88
Il 18 Aprile 2012 alle ore 20:35

Dalla Biblioteca del Monumento Nazionale di Farfa in Via del Monastero a Fara in Sabina (Rieti) apprendo che “si conoscono due ricette medievali (secc. VIII e XII) che illustrano il processo di preparazione della pergamena; da esse si deduce come la pelle, una volta staccata dal corpo dell’animale, si immergesse nel “calcinaio” (acqua e calce spenta), dove veniva lasciata per 5 giorni; seguiva la lavorazione del lato pelo con un coltello a lama non tagliente e in seguito, dopo un secondo “calcinaio”, la scarnatura, ovvero la lavorazione del lato carne. Immersa una terza volta nel “calcinaio”, la pelle veniva infine tesa su un telaio e sottoposta all’eliminazione definitiva del “carniccio” e fatta essiccare. A completare l’operazione, si levigava infine la superficie con la pietra pomice. Il risultato era più o meno raffinato a seconda della pelle utilizzata, dell’età dell’animale e della accuratezza della lavorazione, che nei casi estremi non consente di distinguere il lato pelo dal lato carne; normalmente, tuttavia, il foglio di pergamena presenta il lato carne più chiaro rispetto al lato pelo e spesso è possibile individuare ad occhio nudo i bulbi piliferi sulla superficie quest’ultimo. Per la realizzazione di manoscritti si utilizzavano tutte le parti della spoglia (tale è il nome della pelle sottratta all’animale morto), piuttosto facilmente individuabili ad un’osservazione attenta. Particolarmente pregiata era la pergamena “virginea”, ovvero quella tratta dal feto dell’animale o da animali nati morti…”.
Mi sorge dunque un interrogativo: non è che l’uso della cartapecora è, in qualche modo, ricollegabile alle cellule staminali?

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