Originariamente postato da ippogrifo11
Il 23 Febbraio 2012 alle ore 20:18
Entro nel dibattito che si sta sviluppando intorno alla questione sul modo di intendere l’approccio all’azione terapeutica e al rapporto con l’ammalato. La questione è invero di indubbio interesse e ancor più stimolante se si pensa che essa attiene alla pratica ortodossa indicata dalla Schola nell’esplicazione della sua unica finalità.
Eviterò di affrontare la questione sotto la prospettiva teorica: inutile stare a filosofare su un argomento che, appartenendo alla pratica, è essenzialmente pratico. Dunque, porto sul piatto il risultato dell’esperienza condotta sul piano personale e maturata, almeno spero, attraverso l’esercizio pluriennale della pratica ortodossa.
Comincio allora da quel poco che credo di aver capito praticando.
L’ammalato che abbia richiesto l’aiuto terapeutico della Schola entra in contatto con la Catena di Miriam attraverso l’elemento-numero che fa da ponte tra lui e la catena stessa. L’azione terapeutica trae origine dalla virtù o dalle virtù condensate nel patrimonio tradizionale e ortodosso “vivificato” (e perciò reso attivo) dal Centro. L’azione, forza in atto, passa attraverso l’elemento-numero (organismo vivente e intelligente [con qualche riserva su quest’ultimo punto]) ed è da questi diretta verso l’obiettivo: l’ammalato. Da qui in poi, l’azione terapeutica svolge il proprio corso, interagendo in primis con la volontà occulta dell’ammalato stesso, volontà – inutile ricordarlo – sulla quale incide probabilmente poco la volontà consapevole dello stesso ammalato e ancor meno, anzi nulla, la volontà dell’elemento-numero.
Allora, quale dev’essere la condizione che si richiede all’elemento numero nel corso dell’azione terapeutica?
Nessun’altra al di fuori dell’unica cosa che è chiamato a fare: fare da “canale”.
A questo punto, la questione si sposta sul “canale”, il quale può essere:
ostruito (condizione limite, forse, ma non impossibile)
parzialmente ostruito o, se si preferisce, in versione più ottimistica, parzialmente disostruito (condizione, ahimé, assai diffusa)
disostruito (condizione ideale ma non verosimile in esseri in itinere).
Dunque, come “canali” o “tramiti”, per usare la logologia della Schola, nella migliore delle ipotesi non opponiamo “resistenze” al fluire dell’azione terapeutica. Nell’ipotesi invece più verosimile opponiamo le resistenze dovute al fatto che la nostra ‘materia vivente’, che è materia materiale ma anche materia psichica, ha le sue dinamiche che non sempre sono allineate con l’azione in essere. La cosa è di per sé già complicata e perciò è inutile complicarla ancora di più inframmezzandovi, nel momento in cui facciamo da ponte, idee circa l’amore, la malattia, la compassione e simili.
Dirigiamo semplicemente la volontà che sta a presidio della nostra azione verso l’obiettivo cui è destinata. L’azione va a compimento con la conclusione del rito e perciò non può avere code, nel senso di aspettative circa il risultato dell’azione stessa.
E l’amore?
L’amore è uno stato di essere dell’operatore, non legato all’ammalato e ancor meno legato alla malattia. E’ un vibrare di per sé, in uno col compimento del rito. Il problema sta nell’evocarlo, questo stato, e, quando vi si riesce, fissarlo.
Ecco, questo è il poco che ho capito e di sicuro, per questo poco avrei potuto utilizzare meno parole.