Reply To: AUTOFAGIA? Nihil sub sole novi!

Buteo
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Risale agli anni ’50 la scoperta, nella cellula eucariote, di “organuli cellulari” (lisosomi), la cui attività consiste nell’inglobare e trasportare materiale sia extracellulare, situato cioè fuori dalla cellula, sia di pertinenza della cellula stessa, destinato alla degradazione e trasformazione. La scoperta è valsa il premio Nobel per la Medicina nel 1974 a Christian de Duve. È lo stesso scienziato a coniare il termine “autofagia”, quando il processo coinvolga porzioni della cellula stessa e “autofagosomi” gli organuli a questa funzione deputati.
Alla fine degli anni ‘80 Y.Ōsumi concentra la propria ricerca sul lievito Saccharomyces, noto fin dall’antichità per la panificazione e la produzione di birra e di vino. Appartenente al regno dei funghi, è uno dei microrganismi unicellulari più utilizzati in biologia perché facilmente coltivabile in vitro e perché, essendo cellula eucariote, come lo sono le cellule di piante e di animali, fornisce un ottimo modello nello studio della cellula umana. Se riuscirà a dimostrare, nella cellula di Saccharomyces, la presenza di autofagosomi, non visibili ai microscopi in uso, avrà a disposizione il materiale ideale su cui avviare la successiva ricerca genetica.
E Osumi riesce nell’impresa, evidenziando in primis la loro presenza nella cellula del lievito, e ottenendo, successivamente, di identificare e caratterizzare i geni coinvolti nel processo di autofagocitosi.
L’importanza della scoperta consiste proprio nell’aver dimostrato che l’attività autofagica è geneticamente controllata, e che si attiva o per la necessità della cellula di ‘riaggiustare’ il proprio materiale strutturale/enzimatico o perché virus o batteri, o parti di essi, sono stati inglobati nella cellula e devono essere demoliti, o quando occorra produrre energia per mancato apporto di sostanze ‘nutritive’ dall’esterno.
Egli dimostra che l’autofagia s’innesca con l’attivazione sequenziale delle proteine atte allo scopo e si arresta se i geni coinvolti nel processo sono inattivati. In questo caso, il materiale intracellulare ‘deteriorato’ non può essere riparato e il materiale autofagocitato, che non può essere demolito né per il riutilizzo, né per la produzione di energia, si accumula all’interno della cellula. Se, in un organismo pluricellulare, la situazione di blocco si protrae per un tempo sufficiente e coinvolge un numero sufficiente di cellule, si manifestano malattie cosiddette da accumulo (genetiche o degenerative), diabete, tumori, patologie dell’invecchiamento.
La scoperta di Osumi ha aperto la strada alle ricerche per produrre farmaci che possano intervenire sui processi di autofagia e sulle conseguenti patologie correlate. Quanto tempo occorrerà non è dato sapere, ma verosimilmente la strada sarà lunga, laddove la medicina ermetica agisce da tempo immemore, proprio perché ha la facoltà di intervenire nel ripristino di quelle funzioni, che ora, poco a poco e con studi lunghi e impegnativi, la scienza medica ci viene svelando.

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