Rispondi a: ECCE QUAM BONUM ET QUAM IUCUNDUM HABITARE FRATRES IN UNUM

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ippogrifo11
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La visione del video suggerito da Buteo indurrebbe a riflettere su più di un versante. Difatti, l’avvincente rassegna sulle peculiarità del nostro Paese, che ne fanno un condensato di biodiversità, oltre che di testimonianze culturali, che non ha eguali sulla superficie del pianeta sarebbe già di per sé bastevole per una discussione di ampio respiro. Tuttavia, ciò che più cattura l’attenzione è l’argomento che verosimilmente ha spinto Buteo a pubblicare post e video: la “fortuna “ – nel video si ricorre a un termine di bassa anatomia (nel senso di posizione e non di giudizio) – di essere nati in questo unicum biologico, climatico e storico-culturale. Quella stessa fortuna che Buteo, per intuibile parallelismo, trasferisce alla condizione di noi iscritti praticanti della Schola, ossia l’essersi ritrovati nel Contenitore miriamico. Al riguardo, sempre Buteo alla fortuna, cioè al caso, dice di preferire la possibilità che questa condizione vada attribuita all’acquisizione di “meriti” precedenti, ossia a una legge di causa-effetto. Che sia vera l’una cosa o l’altra – e anche qui la Tradizione ci dà indicazioni chiare – a me pare che su un aspetto bisognerebbe davvero riflettere, indipendentemente dal fatto che la “fortuna” riguardi il dominio del sociale o quello della Fratellanza di Miriam: la “fortuna”, comunque ci abbia toccati, non è, come detto nel video, una colpa della quale farsi perdonare, ma piuttosto una opportunità da cogliere. Avere di più, di qualunque cosa si tratti, qualunque sia il dono che la Natura, per condizione di nascita ci ha elargito, o che ci elargisce strada facendo, si tratti di genialità, di creatività, di iniziativa, di conoscenza, o più semplicemente di sensibilità o di esperienze da condividere, è una splendida occasione per mettere la nostra “ricchezza”, la nosta diversità al servizio della comunità della quale siamo parte integrante. Così facendo, ci si rende tramiti attivi tra il “più” e il “meno” e, tendendo una mano a chi è stato meno “fortunato” di noi, partecipiamo a un processo di miglioramento collettivo che è evoluzione. È in questo senso che noi miriamici intendiamo il “Do ut des”, avendolo compreso innanzi tutto quando riferito a noi stessi: se ho ricevuto di più è perché possa dare di più. Ed ecco che gli “anelli” si inanellano e la catena diventa Catena fraterna, fruitrice e produttrice di Bene.

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